È venuto il tempo di immaginare un mercato del lavoro europeo con regole comuni e comuni strumenti di protezione sociale che favoriscano l’equità, l’integrazione e la circolazione delle competenze nel territorio dell’Unione.
L’Europa ha elevata densità demografica, buone vie di comunicazione, alta urbanizzazione: tutte condizioni che favoriscono la mobilità interna continentale. Questa tuttavia rimane bassa, se paragonata a quella statunitense, e questo riduce le possibilità dei cittadini europei di cogliere le opportunità di lavoro e di vita laddove queste si presentano. Le barriere culturali e linguistiche sono un ostacolo importante, ma ci sono anche difficoltà di natura legale e amministrativa su cui è necessario intervenire, nel mercato del lavoro autonomo e in quello dipendente: solo per citare le principali, la difformità dei criteri di valutazione degli studenti, le barriere ancora esistenti per il riconoscimento dei titoli di studio, le barriere all’ingresso nelle professioni, le disparità nei benefici di welfare e la portabilità dei diritti pensionistici.
Al tempo stesso, la mobilità di lavoratori da un paese all’altro dell’Unione comporta una perdita economica secca da parte dei paesi di provenienza. Non si tratta solo della perdita di capitale umano – spesso anche qualificato – ma della riduzione dei contributi versati alle forme di supporto e previdenza ancora organizzate su base nazionale. Questo è insostenibile all’interno di un’unione federale e apre la porta a fenomeni di divergenza in cui shock temporanei possono avvitarsi in crisi profonde di lungo periodo. Non solo infatti la caduta del PIL e delle entrate fiscali di uno degli Stati membri dell’Unione non è compensata da trasferimenti da Bruxelles (come invece avviene per esempio negli Stati Uniti), ma lo spostamento di lavoratori dai paesi in crisi verso quelli in crescita mette di fatto a repentaglio lo stato sociale anche per coloro che restano a lavorare nel proprio paese. In linea con il percorso indicato dal Parlamento Europeo, il mercato del lavoro europeo dovrà mettere al centro la partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa.
Sempre più start-up e imprese europee chiedono la creazione di uno spazio legislativo semplice, protetto e comune a tutta l’Unione Europea in cui crescere e investire: un ecosistema integrato, con regole comuni e coerenti su questioni attinenti a tassazione, mercato del lavoro, accesso al capitale e tutela dei brevetti. Questo faciliterebbe gli scambi e le operazioni tra Paesi diversi, permetterebbe sinergie continentali e aumenterebbe le possibilità di successo per le nostre migliori giovani iniziative, sia profit che noprofit.
Anche a livello europeo si devono sviluppate politiche che aiutino i lavoratori a costruire e migliorare costantemente le proprie competenze nel corso della propria vita lavorativa. Apprendimento permanente, non inteso come “riqualificazione”, ma come elemento cardine di un più complessivo diritto soggettivo di ogni cittadino alla formazione. I cambiamenti sempre più veloci che si susseguono in tutti i campi ci impongono di finalizzare in modo più puntuale gli investimenti per la formazione lungo tutto l’arco della vita e per le politiche attive, impedendone un uso improprio dovuto all’identificazione di questi strumenti come forme di ammortizzatori sociali. Il “lifelong learning” acquista valore anche rispetto a temi sociali (quali la riduzione delle disuguaglianze) e di crescita civile (quali la responsabile consapevolezza di nuovi diritti e l’impegno nella costruzione degli strumenti per farli riconoscere), ma, soprattutto, è la via maestra per rafforzare la qualificazione dei cittadini che da una riorganizzazione del sistema educativo nel suo complesso possono aspettarsi di essere finalmente messi in condizione di avere opportunità e strumenti permanenti. Non è più sostenibile un sistema basato su una separazione netta tra una fase della vita nella quale si accumula il sapere necessario per le fasi successive e altre fasi nelle quali, al massimo, lo si aggiorna.