agosto 9, 2012

Il DOPING

Il caso Schwazer e gli articoli di oggi sul giornale l’Arena di Verona, mi hanno motivato a fare alcune riflessioni relative al fenomeno doping. Il doping è oggi proibito, ma è alla luce di tutti che è talmente diffuso che la proibizione e l’anti-doping sono armi insufficienti.  I calciatori corrono come dei “disperati” anche a fine partita, i ciclisti sembrano delle motociclette, i tennisti colpiscono innumerevoli palle per ore a grandi intensità; il tutto non è frutto solo dell’allenamento!

La mia prima considerazione che faccio da liberale antiproibizionista è che il “proibizionismo” non ha funzionato. Oggi lo sport vive di complessi rapporti con la società, la politica e la comunicazione. Il tentativo di alterare le proprie prestazioni fisiche con pratiche farmacologiche è comunque antico; solo per restare allo sport moderno, nelle gare di resistenza l’assunzione di eccitanti con lo scopo di ridurre il dolore muscolare per prolungare gli sforzi erano già molto utilizzati in passato. Se ne parla per la maratona e il ciclismo alle Olimpiadi di Saint Louis nel 1904. Per decenni non vi furono precisi sistemi di regolamentazione e divieto, se non nelle singole competizioni. Il tentativo di migliorare le proprie prestazioni con qualunque pratica e sistema veniva percepito come possibile, anche se non del tutto “legittimo” per ragioni più che altro di mera sportività e del resto ancora nel 1952 Fausto Coppi poteva dichiarare candidamente in un’intervista come l’uso della “bomba” fosse comune in tutto il gruppo di ciclisti; del resto proprio nel ciclismo, sport che per le sue specifiche caratteristiche bene si addice alle pratiche di doping, i primi tentativi di limitare il fenomeno si ebbero dopo la tragedia di Tom Simpson, morto per una “overdose” in una drammatica tappa alpina del Tour de France nel1967 e avevano essenzialmente lo scopo di tutelare la salute degli atleti, più che di garantirne la lealtà dei risultati.

La morte di Simpson rappresentò uno spartiacque, per l’impossibilità di continuare nella sostanziale sottovalutazione del pericolo dell’assunzione indiscriminata di sostanze che interagivano con la fisiologia dell’organismo e nascondevano i segnali del raggiungimento dei limiti di resistenza. La “cortina del silenzio” rimane però sempre presente a tutelare gli interessi economici dello sport. Nel corso della guerra fredda lo sport, soprattutto quello olimpico, diventa terreno di confronto tra le superpotenze (Russia e Stati Uniti). In questo clima si istituì un sistema rigoroso e scientifico di “doping di stato”, che pur con profonde differenze, ha influenzato tutto lo sport contemporaneo. Da questo punto di vista non appare casuale che il primo grande scandalo doping alla fine della guerra fredda, quando le pressioni delle grandi istituzioni sportive su base nazionale iniziavano a lasciare maggiore libertà ai centri di controllo della corretta pratica sportiva, riguardasse Ben Johnson, appartenente a una federazione debole come quella canadese, “colpevole” di essere rivale del ben più protetto Carl Lewis. Nel 1988 Ben Johnson vide la sua carriera sostanzialmente distrutta dai provvedimenti presi per il doping.

Fu soprattutto a partire da questo momento che si impose definitivamente, la tendenza a guardare l’assunzione di sostanze dopanti come un attentato alla lealtà sportiva, dopo che per anni pratiche di quel tipo erano guardate dagli staff medici delle federazioni con la stessa attenzione e con lo stesso atteggiamento, con cui si guardavano l’allenamento in altura. Il caso Johnson è anche il primo esempio, almeno a livello così eclatante (riguardava gare olimpiche e mondiali e coinvolgeva l’autore di un record del mondo spettacolare, 9.79, poi imbattutto per circa 20 anni) di colpa ritenuta individuale. L’atleta “beccato” con i valori sbagliati, viene additato da tutto il mondo che lo circonda come il traditore, il colpevole, ma nei fatti è il “capro espiatorio” perché l’intero sistema di accesso e impiego delle sostanze continui ad avvenire secondo criteri e strutture ben organizzate.

I media, che ormai costantemente mettono al centro dell’attenzione il mondo sportivo, trovano nel singolo colpevole l’obiettivo contro cui scagliarsi per ricostruire la loro “verginità” e quella di un ambiente di cui anche essi fanno parte e la cui delegittimazione avrebbe costi economici, sociali e politici enormi (Ricordo il caso Zeman e il processo alla Juventus con la grande quantità di farmaci trovati negli spogliatoi della squadra).

Di questa colpevolizzazione dell’individuo per salvare il sistema, abbiamo varie testimonianze. Il “cattivo ragazzo” diventa un bersaglio fin troppo facile, ma purtroppo così sensibile da rimanere schiacciato da non riprendersi più. Abbiamo tutti in mente casi estremamente diversi tra loro, ma ben scolpiti nella memoria quello del 1994 (Maradona) e del 1999 (Pantani).

Sentire Schwazer definire il proprio medico come preparatore atletico è a mio avviso un vero paradosso.

Purtroppo non ho la soluzione al problema doping, ma credo che sia sotto gli occhi di tutti che così non funziona, il doping è talmente diffuso che non ci accorciamo che negli sport dove girano importanti quantità di denaro, la sua pratica è diffusissima. Non capisco perché attorno agli atleti devono esserci così tanti medici; l’atleta sano non dovrebbe andare dal medico, solo l’atleta malato o con un problema dovrebbe recarsi dal medico!

One thought on “Il DOPING

  1. Come Tecnico – Ex Preparatore di Atleti a Livello Mondiale di Powerlifting provo per Schwazer molta pietà in quanto solo un ingenuo o stupido poteva doparsi in quel modo ed in quei tempi.Un Atleta della sua classe sa benissimo, o meglio, dovrebbe sapere che l’EPO altera sia l’ematocrito che i valori di emoglobina in maniera repentina.Io gli credo quando afferma che a Pechino era pulito.Il doping purtroppo, a mio avviso, è un fatto politico e solo gli stupidi, gli ingenui e gli Atleti appartenenti a Nazioni non “agganciate” a certi giochetti vengono “pescati” positi.