settembre 2, 2019

MEDIOCRITA’ AL POTERE

La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante (John Stuart Mill)
Publio Cornelio Scipione nell'eredità storica culturale - Wikipedia

di Roberto Cataldi – Nel discettare sulle diverse possibili forme di Governo, Platone aveva messo in guardia dalle loro possibili degenerazioni. Il filosofo greco, però, non avrebbe mai immaginato che il degrado di un sistema democratico moderno potesse avere a che fare con la progressiva perdita di “spessore” dei rappresentanti del popolo e con la banalizzazione dei ruoli e delle istituzioni.

Questo lento e progressivo declino verso la mediocrità diventa tanto più preoccupante quanto più si acquisisce la consapevolezza che tra una “buona” politica e una politica priva di “valore” (e di “valori”) vi è in bilico la sorte di un intero Paese.

Ma proviamo a riavvolgere il nastro. Che cosa è successo a quel modello di democrazia sapientemente messo a punto dai nostri padri costituenti? Non siamo più di fronte allo stesso Parlamento, non vi è dubbio, ma se quel concetto alto di democrazia inizialmente ipotizzato è ormai tramontato, forse tutto è partito da un equivoco di fondo: l’idea che chiunque debba essere messo nelle condizioni di poter fare politica è stata confusa con l’idea che il merito potesse essere definitivamente accantonato. Un pò come avallare l’ipotesi di mettere alla guida di una nave chi non la sa condurre e non ha mai conseguito la patente nautica.

Per ricoprire un ruolo così delicato, come quello di legiferare, occorrerebbe innanzitutto un gesto di onestà intellettuale di chi si mette in gioco. Un candidato dovrebbe prima guardarsi allo specchio e chiedersi se è davvero capace del ruolo che vuol ricoprire. Ma non illudiamoci, siamo noi cittadini a dover acquisire una sempre maggiore capacità critica dato che, in ultima analisi, siamo noi a scegliere ed eleggere i nostri rappresentanti.

Se non diamo il giusto valore al merito, rischiamo di banalizzare il ruolo stesso della politica i cui principali “attori” non diventano altro che dei “bravi politicanti” alla ricerca più di consensi che di soluzioni ai problemi del Paese. Ai politicanti non serve il merito, basta saper “incantare” le masse, cavalcare l’onda del malcontento, banalizzare la comunicazione ed ottenere consensi.

Torniamo a Platone. Secondo un mito che trae origine da uno dei suoi dialoghi, Zeus dovette intervenire perché gli uomini senza la politica non erano in grado di vivere insieme ed erano quindi esposti agli attacchi delle belve. Decise quindi di mandare loro Ermes per portare il rispetto e il senso della giustizia. Ermes chiede a Zeus come deve dare agli uomini questi doni “Nel modo in cui sono distribuite le altre arti? Uno che possiede l’arte medica basta per molti profani, e così gli altri mestieri: anche dike (giustizia) e aidòs (rispetto) devo porre così negli uomini, o distribuirli a tutti?”. Zeus risponde “a tutti e tutti ne partecipino”. Platone parla di “partecipazione” all’attività politica. Ma attenzione, “partecipazione” alla vita politica è cosa ben diversa dall’”esercizio” in concreto della politica, esercizio che ovviamente richiede qualche dote in più. La partecipazione di cui parla Platone, si compie nel momento in cui si da luogo a un dialogo costante e costruttivo tra rappresentanti e rappresentati.

Sin dall’infanzia ci viene insegnato che è necessario “meritare” per ottenere qualcosa. E la vita, fin da subito, prende il sapore di una sfida. Si forma in noi l’idea che il merito dia diritto a una sorta di “riconoscimento” sociale. Crescendo, però, questo mito comincia a vacillare. Specialmente quando a poco a poco ci si rende conto che ad avere la meglio, in genere, non sono i migliori ma i più furbi. Ed ecco che il concetto di merito si incontra e si scontra con la realtà dei fatti e l’anelito alla meritocrazia diventa una sorta di “bisogno di giustizia” in una società che dovrebbe premiare le competenze e le doti umane piuttosto che le astuzie.

Noi tutti vorremmo vivere in un mondo in cui sia dato il dovuto spazio per chi è il migliore nel suo campo. E noi tutti vorremmo che questo possa accadere anche in politica.

Ma è sempre così? La risposta la conosciamo bene. Del resto, si sa, le banalità ottengono più facilmente consensi ed applausi ed è molto più facile parlare alla pancia di un popolo che al suo cervello. Così, se ancora oggi si fanno avanti persone prive di qualità umane ma abili nella comunicazione è perché il politico che asseconda i “desiderata” dell’uomo mediocre ha molta più probabilità di avere successo. Ed ecco che si passa da una politica “meritocratica” a una sorta di “mediocrazia” dove prevale il degno rappresentante dell’uomo medio e dove le banalità prendono il sopravvento. Siamo così di fronte alla peggiore delle distorsioni del sistema democratico, quella che Richard Yates definì come una “malattia sociale” dove la gente “ha smesso di pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda mediocrità”.

Sono tanti i rappresentanti dei cittadini. Li troviamo nelle istituzioni, negli enti territoriali, in Parlamento. E sono diversi sotto ogni punto di vista, non solo in fatto di ideologie. Eppure davanti ad una buona idea, davanti ad una soluzione efficace essi dovrebbero reagire dimostrando di essere “meritevoli” del ruolo che gli è stato assegnato anche solo imparando a dare il giusto valore alle buone idee, a quelle idee che si mostrano “valide” a prescindere da chi le ha messe in campo. Mai come oggi il mondo politico ha bisogno di fare il pieno di persone così, intellettualmente oneste e di incontrovertibile spessore umano. Allo stesso tempo bisogna tenere alla larga gli affabulatori e i ciarlatani che sanno solo illudere le piazze con l’abilità dei saltinbanchi o dei prestigiatori.

Se non si riconosce il demerito – scriveva Vittorio Zucconi – “non si potrà mai valorizzare il merito”. Uno sforzo in tale direzione dobbiamo assolutamente farlo se vogliamo munirci degli “anticorpi” necessari per non cadere più nelle trappole del passato, per non replicare quegli errori che tragicamente si ripropongono ogni volta che ci lasciamo trasportare da una retorica malsana e fanatica, rinunciando ad esercitare il benché minimo senso critico.

Se la storia ci ha insegnato qualcosa allora dovremmo riscoprire dentro di noi il senso vero della democrazia, di una democrazia intesa come una “orchestrazione delle differenze” dove il potere non è la risposta a un’ambizione del singolo ma un servizio per la collettività. Oggi l’analisi sociologica e antropologica del potere ci consente di guardare, in una nuova prospettiva interpretativa, all’impalcatura filosofica e concettuale che ha sostenuto lo spirito di potenza dei totalitarismi di massa dei primi del novecento. Ma esistono aspetti che le scienze umane possono trarre solo dal fondo oscuro della psicologia individuale e collettiva. E’ li che dobbiamo rivolgere le nostre attenzioni, perché il nostro futuro dipende solo e principalmente da quello che siamo e dalle persone a cui decidiamo liberamente di affidare la nostra rappresentanza.